La storia della Diga del Gleno
La costruzione di una diga “unica al mondo”
La Fraterna Viganò
La Diga fu voluta su iniziativa privata dalla Ditta Galeazzo Viganò – ufficialmente Fraterna Viganò – un’impresa familiare di Ponte Albiate (Comune di Triuggio, Milano) che basava la sua ricchezza sull’attività di grossi cotonifici.
La ditta era interessata a disporre direttamente di energia elettrica per alimentare i propri impianti, invece che doverne acquistare da società di produzione energetica, che proliferavano in quell’epoca di primo sviluppo industriale.
Il progetto
Il progetto per la Diga prevedeva uno sbarramento a 1500 m di quota presso il Pian di Gleno, un verde pascolo circondato da alcune delle cime più alte della Val di Scalve, come il Monte Gleno e il Pizzo Tre Confini (entrambi oltre i 2800 m).
Oggetto di varie richieste di concessioni e progetti a partire dal 1907, nel 1916 la Ditta Viganò ottenne la concessione dall’ingegner Gmür.
Il progetto prevedeva una diga a gravità, da dove l’acqua del torrente Povo sarebbe stata convogliata – dopo il primo salto di 400 m – ad una centrale nei pressi dell’abitato di Bueggio, per poi proseguire verso la centrale di Valbona dopo un ulteriore balzo verso il fondovalle.
I lavori di costruzione
Negli anni 1917 e 1918 iniziarono i lavori per opere accessorie come canali, strade, teleferica, ecc.
Nell’ottobre 1918, morì Michelangelo Viganò, che fino ad allora aveva seguito i lavori a nome dell’azienda familiare. Fu sostituito dal fratello Virgilio, che seguì il progetto fino al tragico epilogo.
In seguito alla presentazione del progetto esecutivo a maggio 1919, due mesi dopo iniziarono i lavori di scavo per la costruzione della diga. A questo punto il progetto era ancora quello di una diga interamente e gravità con muratura in calce (prodotta in loco a Valbona).
Nel giugno 1920 iniziarono i lavori di muratura, utilizzando non solo calce ma anche cemento.
A settembre, a seguito della morte della morte dell’ing. Gmür, la Fraterna Viganò mise definitivamente a capo del cantiere l’ingegner Santangelo. Fu lui che nel 1922 ufficializzò il progetto che trasformava la diga in una struttura mista a gravità e ad archi multipli. In altre parole, sul tampone (la struttura che “tappava” la gola del torrente) si impostava una base di calcestruzzo su cui si edificarono 25 archi.
Nel novembre 1921, si cominciò ad immettere acqua nel bacino, abbastanza da far funzionare la centrale elettrica di Povo per le necessità del cantiere. Tuttavia, da subito si segnalarono perdite intorno al tampone e nella muratura della base.
Nel 1922 si continuò con la costruzione; si riempiva il serbatoio della diga a livelli sempre maggiori, anche per permettere il funzionamento delle centrali di Povo e Valbona, già concluse.
La conclusione dei lavori
I lavori proseguivano, ma probabilmente si continuarono a riscontrare delle perdite. Infatti, nel maggio 1923 il bacino fu parzialmente svuotato per intonacare e incatramare la superficie interna del muro.
In seguito, il bacino si riempì nuovamente. Il 23 ottobre – a causa delle intense piogge – il livello dell’acqua era così alto da “traboccare” dagli sfioratori.
Quel giorno venne considerato come un vero e proprio collaudo per una diga unica al mondo, mista a gravità e ad archi multipli: quello che sembrava un vero portento dell’ingegneria moderna.
E così credevano anche i membri della Fraterna Viganò, che non solo sostennero investimenti sostanziali nel progetto di Pian del Gleno, ma avevano già presentato altre domande per lo sfruttamento dei torrenti scalvini.
Quel nefasto 1° dicembre…
Il Disastro del Gleno
Il 30 novembre 1923, il bacino della diga era di nuovo di pieno: l’acqua raggiungeva i 38 m di altezza. Le perdite alla diga erano in continuo aumento e, come ad ottobre, vennero apposte delle tavole per evitare che l’acqua traboccasse dagli sfioratori e andasse a colpire gli spigoli dei piloni.
Pochi minuti dopo le 7 del 1° dicembre 1923, il guardiano della diga stava camminando sulla passerella quando sentì un rumore di sassi che cadevano e notò una crepa in un pilone. Cercò di affrettarsi verso la sua baracca, dove si trovava il telefono per dare l’allarme, ma non fece in tempo. La crepa si allargò fino a diventare uno squarcio enorme, che trascinò con sé quasi 80 dei 260 m della diga e rilasciò sei milioni di metri cubi di acqua.
La massa distruttiva di acqua colpì per primo l’abitato di Bueggio, travolgendone anche la Chiesa: parte del paese fu salvato da una sporgenza rocciosa che deviò la traiettoria della corrente.
Fato ben peggiore subì l’abitato di Dezzo: la parte del paese sul versante di Colere fu completamente spazzata via, incluso il Santuario della Madonnina più a monte. Gli edifici sotto Azzone furono parzialmente protetti grazie alla presenza di un enorme masso erratico.
L’acqua – ormai una fiumana di fango e detriti – proseguì la sua corsa distruttiva lungo la forra del torrente Dezzo, raggiungendo la Valle Camonica e devastando Mazzunno, Angolo Terme e la località Corna di Darfo Boario Terme.
Infine, le ultime propaggini della massa d’acqua si riversarono nel Lago d’Iseo.
Dopo il disastro
Le vittime accertate del Disastro del Gleno furono 359, anche se le stime variano, arrivando anche a riportare una cifra di 500). La maggior parte dei decessi si riscontrarono a Dezzo e a Corna.
L’evento ebbe una risonanza internazionale, attirando l’attenzione non solo dei media del tempo, ma anche di molte personalità che si diedero subito da fare per aiutare le popolazioni colpite. Tanto che la zona fu visitata – fra gli altri – anche dal Re Vittorio Emanuele III.
Il processo che seguì tentò di fare luce sulla causa del disastro. Le indagini di vari periti stabilirono che la causa del crollo fu il cedimento della muratura d’appoggio della sezione centrale della diga, nel particolare nel tampone. Altri studiosi sostennero che la motivazione era da trovarsi nelle rocce fratturatesi sotto il medesimo tampone.
Inoltre, numerose testimonianze additarono la cattiva condotta delle ditte di costruzione e della Fraterna Viganò: l’intento di ottimizzare i costi portò alla fretta e all’impiego di materiale di scarsa qualità.
Altri ancora individuarono la causa del disastro in un errore di progettazione e negli inaccurati controllo del Genio Civile.
Qualunque fosse la causa, durante il primo processo , Virgilio Viganò e l’ing. Santangelo furono entrambi condannati. Tuttavia, nel processo di appello si stabilì l’assoluzione per entrambi: Viganò perché deceduto, l’ingegnere per mancanza di prove.
Il disastro della Diga del Gleno nel racconto di alcuni superstiti – prodotto dalla Comunità Montana di Scalve (2003). Regia di Davide Bassanesi.
Per saperne di più sulla storia della Diga, è possibile visitare lo Spazio Espositivo Gleno a Vilminore di Scalve e visionare il materiale dell’Archivio Gleno, parte del progetto “Gleno – Una Comunità di Eredità”.